La città di Genova, come molte altre località italiane ricche di fascino e di storia, è stata visitata, raccontata, amata e talvolta anche criticata da numerosi viaggiatori illustri. Le sue strade, le sue fontane, i suoi palazzi, le sue gallerie d'arte hanno destato lo stupore di molti di essi. Talvolta ne hanno registrato anche il disappunto ma, più spesso, anche una celebrazione la più sfacciatamente iconografica se non improbabile. Caratterizzata da un'orografia irregolare ed ampia e priva, perciò, di uno scenario che la faccia somigliare ad una cartolina illustrata – e con un territorio solo parzialmente modificato dalla mano dell'uomo in maniera tale da farla divenire un'inaccessibile città-fortezza - la città sembra avere fatto leva, per suggestionare i suoi ospiti, più sulle proprie contraddizioni che non sulle proprie peculiarità. Quello che segue è, dunque, uno spaccato di storia della città - e dei suoi abitanti - vista ai raggi X attraverso il racconto vivo, la poesia, talvolta la cronaca, dei viaggiatori illustri che l'hanno visitata respirando l'aria dei caruggi del suo centro storico fra Sottoripa ed il Molo, frequentando o abitando le lussuose ville della collina di Albaro, passeggiando per il Parco dell'Acquasola o ammirando i sontuosi palazzi di Strada Nuova. Una storia, quella del capoluogo ligure, scritta sui luoghi comuni che da sempre la accompagnano, ma - soprattutto - scolpita nei palazzi, nelle strade e nelle peculiarità degli abitanti che questi palazzi e strade hanno reso vivi con le febbrili attività delle rispettive sfere sociali. Negli scritti consegnati al tempo, si può osservare come molti autori abbiano preferito riferire o, meglio, riferirsi alle persone piuttosto che ai luoghi che hanno fatto e fanno tuttora di Genova una città per certi versi unica, quasi per permettere di catturare una chiave di lettura originale che meglio aiuti a comprendere il perché - ma anche il come - di tante e tali bellezze frutto dell'ingegno e dell'arte dell'uomo, tutte assieme radunate. Se per Cechov Genova è - lapidariamente - la città più bella del mondo (nelle parole di un personaggio del suo lavoro teatrale Il gabbiano), più sofferto deve essere stato l'approccio con la città per Nietzsche, secondo il quale Genova poteva essere paragonata a un sud che ha perso i colori e che nell'aprile del 1888 raccontava, scrivendo all'amico Peter Gast, di essersi aggirato [in città] come un'ombra fra i ricordi. Rendo grazie alla sorte - aggiungeva poi - che mi ha fatto capitare in quella dura, austera città durante gli anni della "décadence". Per concludere subito dopo: Quando uno va a Genova è ogni volta come se fosse riuscito ad evadere da sé: la volontà si dilata, non si ha più coraggio di essere vili. Mai ho sentito l'animo traboccante di gratitudine, come durante questo mio pellegrinaggio attraverso Genova. Dalle pagine di La mort hereuse (opera minore di Albert Camus) ai lavori dei letterati e dei viaggiatori alle prese con il Grand Tour, la città ligure (scarna lingua di terra che orla il mare, per Camillo Sbarbaro) emerge comunque mai banale, priva di fascino, forse in virtù di quel senso di altezzosa alterigia mista a trasandatezza che ancor oggi la caratterizza. Nella Genova dei secoli scorsi - che doveva apparire, ai visitatori che la approcciavano tanto dal mare quanto da terra, come una austera nobildonna e una inespugnabile fortezza moresca al tempo stesso - i colori dominanti erano tre: il bianco, il grigio e il nero. Il bianco dei marmi splendenti delle sue chiese e dei suoi palazzi, ma anche delle statue che adornavano cortili e scalinate delle dimore destinate a diventare storiche e che ancor oggi punteggiano il percorso che si snoda dalla piazza delle Fontane Marose fino alla via Balbi, passando per l'attuale via Garibaldi, già Via Aurea. Il grigio delle costruzioni di solida pietra nelle quali i membri dell'oligarchia cittadina decidevano di volta in volta le forme di governo da adottare nella Repubblica di Genova. E, infine, il nero dell'ardesia, la pietra della vicina Val Fontanabuona che serviva per realizzare impenetrabili coperture e levigate scalinate. Solo qua e là facevano capolino le macchie rosse di case destinate al popolino ed edificate su semplici mattoni a vista, una forma di edilizia peraltro scarsamente usata anche nella Genova medievale. Ma Genova è stata per taluni un'occasione mancata, in tempi più recenti, pure in ambito cinematografico. Come naturale location non è stata vista, o vista in maniera errata, anche da due famosi registi come Alessandro Blasetti e Folco Quilici: il primo, nel 1934, scelse di girare per il film 1860 la partenza della spedizione dei Mille in una spiaggia fra Roma e Civitavecchia anziché dallo scoglio di Quarto dei Mille (da dove realmente Giuseppe Garibaldi salpò con le sue camicie rosse); il secondo ambientò la partenza di Marco, il piccolo protagonista nel suo film del 1960 Dagli Appennini alle Ande tratto da un racconto del libro Cuore di Edmondo De Amicis, anziché dal porto di Genova dal più piccolo borgo marinaro di Boccadasse (peraltro ricostruito in studio). In compenso, Genova è stata - sia pure all'epoca del muto - una finta Napoli in due film dell'epoca del muto - A Marechiaro e Addio felicità (entrambi del 1914) - e una finta Trieste in Trieste o l'impero della forca, di due anni più recente. In tutte queste occasioni la città ligure si sostituì perfettamente agli scenari originali, mutuando dal capoluogo campano la sua struttura obliqua e dalla città giuliana l'austero aspetto mitteleuropeo. Quando nel giugno 1965 i Beatles tennero uno dei loro tre concerti in Italia al Palazzo dello sport di Genova, da poco inaugurato, il loro arrivo e la loro partenza avvennero in grande segreto per evitare le scene di follìa collettiva che abitualmente suscitavano i loro tour. Non si seppe mai se videro - e come - qualcosa della città: qualcuno disse o scrisse che, garantendosi in qualche modo l'incognito, riuscirono a trascorrere la sera antecedente il concerto bevendo in un locale della passeggiata a mare di corso Italia. Ma la notizia non venne mai realmente confermata e, presumibilmente, la si può annoverare fra le numerose leggende metropolitane che sempre hanno accompagnato il quartetto di Liverpool. Di sicuro, dal superblindato Hotel Colombia di piazza Acquaverde nel quale erano asserragliati, a poca distanza dalla stazione ferroviaria di Piazza Principe, riuscirono a vedere ben poco.
